Attualità (9-09-2018)

COMUNITA’ INCAPACI DI DIRE IL VANGELO (prima parte)

La crisi più grave per il futuro delle comunità cristiane è quella riguardante la trasmissione della fede. In altre chiese europee questa rottura della trasmissione dell’eredità cristiana è avvenuta alcuni decenni fa, mentre in Italia la stiamo vivendo attualmente e si impone con una accelerazione che richiede interventi urgenti.
I dati di varie ricerche e analisi dicono che soprattutto la generazione degli attuali quarantenni e cinquantenni si mostra incapace nel trasmettere il Vangelo, la memoria di Gesù Cristo e, diciamolo con chiarezza, la speranza cristiana ai loro figli, immersi in una giovinezza priva di orientamenti, che pure cercano e desiderano per trovare ragioni e senso alla loro vita.
La trasmissione è un dovere, un compito del cristiano, perché risponde ad una esigenza espressa anche nelle Scrittura: “Questi precetti che oggi ti do ti stiano fissi nel cuore. Li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando ti troverai in casa tua, quando ti troverai a casa tua, quando ti coricherai e quando ti alzerai” (Dt 6,6-7). E più avanti, sempre nel Deuteronomio, la parola del Signore attesta: “quando domani tuo figlio ti domanderà: Che cosa significano queste istruzioni, queste leggi e queste norme che il Signore, nostro Dio vi ha dato?, tu risponderai a tuo figlio: Eravamo schiavi del faraone in Egitto e il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente” (Dt 6,20-219. Queste parole che stanno al cuore della fede degli ebrei, e ovviamente della nostra fede in Gesù Cristo, attestano che3 la trasmissione è un necessario insegnamento intergenerazionale, di padre in figlio, quale trasfusione di memoria per creare un orizzonte comune di fede e di speranza, quale comunicazione di un’esperienza che può costruire una comunità nel tempo, una comunione diacronica del popolo di Dio.
In questo la “narrazione” svolge un ruolo privilegiato. Forse l’odierna crisi della trasmissione è dovuta anche all’incapacità di narrare, di fare memoria, di rinnovare un messaggio, di prestare attenzione a ciò che ci ha preceduto, perché tutte le energie sembrano esaurirsi nell’attimo fuggente, in un presente che non sa da dove è originato ed è incapace di proiettarsi nel futuro.
Nel Nuovo Testamento, poi, la necessità della trasmissione è manifestata come possibilità di legame tra le generazioni. Afferma Paolo nelle sue lettere: “Io vi trasmetto quello che ho ricevuto” (1Cor 15,3,ecc) l’apostolo è consapevole non solo della necessaria continuità della fede tra antica e nuova alleanza, tra Gesù Cristo e la chiesa, ma anche che trasmettendo si genera alla fede, si agisce in modo da operare un’inclusione nel popolo in alleanza con il Signore. Dunque la trasmissione è un dovere che permette di abitare la terra e di stare nella storia conservando e rinnovando l’alleanza con Dio, diventando testimoni della sua azione di misericordia e di salvezza in favore dell’intera umanità.
Ma accanto al “dovere” c’è anche il desiderio di far partecipare altri, la generazione che viene, alla buona notizia che ha “salvato” la nostra vita. La trasmissione si basa sulla convinzione che ciò che essenziale per noi può esserlo anche per gli altri. Dovere e desiderio convergono nel comporre la responsabilità della trasmissione. Chi ha ricevuto il Vangelo sente nel Vangelo stesso l’appello a trasmetterlo: “Trasmettiamo affinché ciò che viviamo, crediamo e pensiamo non muoia con noi” (R. Debray. Parole che dovrebbero intrigarci nel profondo, spingendoci a meditare sul fatto che la trasmissione è chiamata a confrontarsi con la non-trasmissione, la quale è fine, morte della nostra fede e della nostra speranza. (continua).

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