Vangelo della domenica (12-04-2015)

2a domenica di Pasqua

2-di-PasquaNell’ottava di Pasqua, o domenica della Divina Misericordia, la Chiesa ci fa ascoltare il brano del Vangelo in cui l’apostolo Tommaso, assente durante la prima apparizione di Gesù Risorto ai suoi discepoli riuniti nel cenacolo, viene presentato come paradigma dell’uomo che vuole prima vedere per poi credere, e soprattutto come modello del credente che dinanzi al Risorto emette la più toccante professione di fede: “Mio Signore e mio Dio!” (Gv 20,28). Per questo nella Preghiera Colletta la Chiesa si rivolge al Dio di “eterna misericordia, che nella ricorrenza pasquale ravviva la fede del suo popolo” affinché le possa far sperimentare la forza rigeneratrice della Pasqua e così, rinnovata dallo Spirito, la comunità dei fedeli possa credere e aderire con tutto il cuore al Signore Risorto.

Nella Colletta alternativa, poi, indirizza la sua preghiera a Dio, il quale, in ogni Pasqua domenicale le fa “vivere le meraviglie della salvezza”, affinché i fedeli possano riconoscere, con la grazia dello Spirito, “il Signore presente nell’assemblea dei fratelli, per rendere testimonianza della sua risurrezione”. Tutto ciò a imitazione degli Apostoli i quali «con grande forza…davano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù» (At 4,33 – Prima Lettura). La forza della testimonianza, poi, proviene dalla «vittoria che ha sconfitto il mondo: la nostra fede» (1Gv 5,4 – Seconda Lettura) e dall’opera dello Spirito, in quanto è lo Spirito che dà testimonianza. In quest’ottica deve leggersi l’episodio della vera conversione di Tommaso: dall’incredulità alla fede nel Risorto e alla testimonianza. In tal modo, nella conclusione di questa pericope dell’ottava di pasqua l’evangelista può chiudere dicendo: «Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome» (Gv 20,30-31 – Vangelo). La pasqua di Gesù, infatti, avvia un nuovo ordine di cose che consiste, per il credente, in una nuova condizione di vita dove non c’è più posto per la fanghiglia e le strutture del mondo fatto di peccato. Per usare le espressioni di un teologo, Karl Barth, si potrebbe dire che in coloro che sono stati giustificati da Cristo e che l’hanno riconosciuto come il Signore, risulta evidente che «la grazia e il peccato sono grandezze essenzialmente incommensurabili. Essi non possono stare a fianco l’uno dell’altro come due stazioni sopra una via né come due membri di una serie causale né come due fuochi di una ellissi né come due fasi di un metodo né come due predicati di un soggetto. Essi sono, in termini matematici, non soltanto punti in due piani diversi, ma punti in due spazi diversi, dei quali il secondo esclude il primo…Il peccato si riferisce alla grazia come il possibile all’impossibile». Nel mistero pasquale di Cristo, pertanto, appare in tutta la sua evidenza che dove ha abbondato il peccato ha sovrabbondato la grazia (cf. Rm 5,20) e proprio per questo dove aveva abbondato l’incredulità di Tommaso adesso sovrabbonda la sua fede pasquale.
L’olio su tavola realizzato da Giovanni Battista Cima da Conegliano nell’ultimo decennio del ‘400, presenta la luminosa figura centrale di Gesù, il quale è rivestito soltanto di un lenzuolo bianco. Porta impresse, ben in evidenza, le stigmate della mano e del piede sinistri, mentre con il capo è inclinato verso san Tommaso, rivestito di una tunica verde e di un mantello rosso. Anche l’apostolo si muove verso Cristo e assume una posa che dichiara immediatamente il cammino che ha dovuto percorrere per raggiungere il Signore e per riconoscerlo come il Vivente. Il suo piede destro, infatti, fuoriesce quasi dalla cornice del quadro e conferisce al dipinto non solo una certa profondità e una forte vitalità, ma anche un inatteso dinamismo. È come se Tommaso fosse giunto proprio in quell’istante, stanco dopo un lungo viaggio, e avesse trovato finalmente ristoro, nella sua ricerca della Verità, nel Risorto che gli sta dinanzi. La sua mano viene afferrata da Gesù e viene accompagnata al suo costato aperto perché non solo veda con gli occhi, ma anche tocchi con la sua mano la verità della sua risurrezione. Alla sinistra di Gesù è posta, invece, la figura solenne del vescovo Magno, rivestito dei paramenti liturgici, il piviale e il pastorale, con un libro in mano, mentre assiste alla scena. Il tutto si svolge entro un’architettura che si apre su uno sfondo dominato da un cielo alto e azzurro, segnato dalla presenza di qualche nuvola, sovrastante un paesaggio fatto di colline e, in lontananza, di montagne. La fede, ci dice l’episodio evangelico, ma anche quest’opera di Cima da Conegliano, è un cammino, non è stasi; mette in marcia e non immobilizza. Il dubbio per il credente o per chi “crede di credere”, come “acqua salmastra” lambisce sempre il cuore e la mente (Joseph Ratzinger) ma non pregiudica in nessun caso l’adesione convinta al Signore Risorto. Non ci è dato di professare la fede nel Risorto una volta per tutte, ma l’itinerario che conduce a Lui deve essere ripreso sempre daccapo, deve essere ricominciato ogni giorno e senza sosta, perché anche la Chiesa di oggi possa ripetere, con Tommaso, le parole della fede: “Mio Signore e mio Dio!”. Per questo «ai privilegiati delle sue apparizioni, Gesù si lascia conoscere nella sua identità fisica: quel volto, quelle mani, quei lineamenti che ben conoscevano, quel costato che avevano visto trafitto; quella voce, che tante volte avevano udito».
(Giovanni Paolo II)

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